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Maša Gessen

Da Wikiquote, aforismi e citazioni in libertà.
Gessen nel 2015

Maša Aleksandrovna Gessen (1967 – vivente), giornalista, scrittrice, traduttrice e attivista russo-americana.

Citazioni di Maša Gessen

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  • Il paragone che faccio tra Gaza e un ghetto ebraico è intenzionale, non è provocazione. È proprio questo il punto: il modo in cui funziona oggi la politica della memoria in Europa e negli Stati Uniti e in particolare in Germania è che non si può paragonare l'Olocausto a nulla. È un evento singolare che si colloca al di fuori della storia. La mia tesi è che per imparare dalla storia dobbiamo fare paragoni. Deve essere un esercizio costante. Non siamo persone migliori, né più intelligenti, né più istruite di quelle vissute 90 anni fa. L'unica cosa che ci rende diversi è che nella loro immaginazione l'Olocausto non esisteva ancora. Nella nostra sì. Sappiamo che è possibile. Il modo per prevenirlo è essere vigili come è stata Hannah Arendt e come lo furono altri pensatori ebrei sopravvissuti all'Olocausto. C'è stato un discorso, soprattutto nei primi due decenni dopo la seconda guerra mondiale, in cui si parlava proprio di come riconoscere i segni dello scivolamento nell'oscurità. Il nostro diritto internazionale umanitario si basa essenzialmente sull'Olocausto, così come il concetto di genocidio. E io sostengo che questo quadro si basa sul presupposto che si guardi sempre alla guerra, al conflitto, alla violenza attraverso il prisma dell'olocausto. Bisogna sempre porsi la domanda se i crimini contro l'umanità siano ricorrenti. Israele ha condotto una campagna di incredibile successo non solo collocando l'Olocausto al di fuori della storia, ma isolandosi anche dall'ottica del diritto umanitario internazionale, in parte utilizzando come arma la politica della memoria e la politica dell'Olocausto. Penso che l'unico modo per cercare di garantire che l'Olocausto non accada più sia sapere che è possibile, continuare a sapere che può nascere da quella che Arendt chiama superficialità e che riporta ne "La banalità del male". Per questo libro fu ostracizzata sia dal mainstream politico israeliano che da gran parte del mainstream politico ebraico nordamericano. Fu interpretato come una banalizzazione dell'Olocausto, ma quello che dice è che le cose più orribili di cui l'umanità si è dimostrata capace possono nascere da qualcosa che sembra niente, dall'incapacità di vedere il destino dell'altro. Lo interpreto come un appello a dubitare del tipo di consenso schiacciante che certamente in Israele e nella comunità ebraica nordamericana sembra sostenere l'assalto israeliano a Gaza. Perché è così che inciampiamo nei nostri momenti più bui.[1]

Intervista di Francesca Caferri, repubblica.it, 2 marzo 2015

  • L'omicidio di Boris Nemtsov spaventa soprattutto perché la vittima non spaventava nessuno.
  • Da qualche tempo il Cremlino ha creato un esercito di cani sciolti desiderosi di vendetta che agiscono senza ricevere istruzioni esplicite, convinti di fare l'interesse del Paese. Benché privo di peso politico, Nemtsov era un primo bersaglio logico di questa forza minacciosa.
  • Nemtsov fu tra i più giovani protagonisti della politica degli anni Novanta e pareva incarnare la nuova era: non proveniva dalla nomenklatura del partito comunista, era fautore entusiasta della riforma politica e economica e il suo patronimico ne indicava l'origine ebraica che Nemtsov, rompendo con la tradizione dell'era sovietica, non cercò mai di nascondere. Nel 1997, Eltsin gli chiese di entrare nel governo di Mosca e girava voce che Nemtsov fosse destinato a succedergli alla presidenza. Ma il presidente russo, malato, si dimostrò incapace sia di cedere il potere che di governare il Paese. Sceglieva in fretta potenziali successori per poi sbarazzarsene con altrettanta rapidità, finendo per allontanare chiunque fosse dotato di un capitale politico. Nel 1999, Eltsin infine decise per un ex agente del Kgb di nome Vladimir Putin, avviando Nemtsov, suo primo delfino, sul terreno dell'opposizione.
  • Il messaggio è chiaro: si verrà ammazzati nel nome del Cremlino, in bella vista del Cremlino, sullo sfondo del Cremlino, solo per aver osato opporsi al Cremlino.

Intervista di Francesca Caferri, repubblica.it, 18 marzo 2018

  • Quando vivevo in Russia, ho cercato di evitare Vladimir Putin in ogni modo. Ho lasciato il giornalismo politico per non occuparmi di lui. Sono finita a dirigere una rivista scientifica. Un giorno, fummo invitati a seguire un esperimento in cui alcuni uccelli venivano liberati e poi seguiti da un aereo per vedere cosa facevano. Il cronista tornò indietro e mi disse che sull'aereo c'era Putin. Scelsi di non pubblicare la storia, perché non volevo dare spazio alla propaganda e per questo fui licenziata. Qualche giorno dopo ricevetti una telefonata da una persona che disse di essere il presidente e mi invitava al Cremlino. Pensavo a un imitatore, ma quando arrivai dovetti ricredermi. Era davvero Putin e voleva sapere il perché della mia decisione. Subito dopo mi fu offerto di nuovo il posto di direttore, ma rifiutai. Avevo capito che sfuggire all'influenza di quell'uomo in Russia oggi è impossibile.
  • Trump parla all'emotività, mentre Putin coltiva uno stile molto costruito: sono i settant'anni di totalitarismo che lo hanno preceduto ad avergli permesso di essere quello che è. Ma ci sono anche similitudini: la maniera in cui mentono, ad esempio.
  • Per quanto riguarda l'America, è giusto dire che Trump non sta facendo gli stessi danni che ha fatto Putin, e che dopo di lui si potrà rimediare perché questa è una democrazia. Ma ci sono cose che ha fatto o che potrebbe fare che hanno conseguenze irreversibili: la scelta di usare il nucleare, per esempio. O quella di ritirarsi dagli accordi di Parigi sul cambiamento climatico.

Intervista di Katarzyna Wężyk, repubblica.it, 28 agosto 2019

  • [Sugli anni 1990] Di solito, le dispute intorno a quel decennio si fanno in Russia tra coloro per i quali fu il periodo di nuove, eccitanti opportunità, e coloro che non sono riusciti a ritrovarsi nella nuova realtà. Ai bambini tutto ciò non importava: per loro fu tempo di destabilizzazione. Quando i genitori non sanno cosa sta succedendo, per il bambini è terrificante.
  • Risarcire la perdita dell’identità è impossibile. Per la minoranza che, come me, aveva una vita comoda o un’educazione occidentale, per i giovani e per quelli che alla stabilità preferiscono le nuove opportunità, fu un tempo magnifico. Ma la maggioranza pone la stabilità sopra ogni altra cosa.
  • Nella fase tarda dell’Urss le persone sapevano chi erano, il loro futuro era chiaro: se appartengo all’intellighenzia farò l’università, andrò a lavorare e magari avrò un appartamento di tre stanze, una piccola dacia e la macchina Lada. Nella storia sovietica questo fu un periodo borghese, spesso lo si dimentica. La stabilizzazione era tangibile. Ed ecco che all’improvviso il sistema cadde e la gente non sapeva più dov’era il suo posto e quali attributi avesse.
  • Dopo 70 anni di totalitarismo, la Russia ha creato un ibrido. Il regime non è totalitario, è piuttosto uno Stato mafioso, però costruito sulle rovine della società totalitaria.
  • Prima del 2012 la società era autoritaria. L’autoritarismo non chiede ai cittadini di mobilitarsi: nulla è politico, tutti se ne stanno a casa e si occupano dei fatti privati, mentre il governante fa ciò che vuole. Una società totalitaria è l’esatto contrario: i cittadini devono partecipare alla vita pubblica, tutto è politico, nulla è privato. Questo cambiamento è avvenuto dopo il 2012, in particolare dopo l’annessione della Crimea.
  • Per l’homo sovieticus è evidente che esistano regole non scritte e che tutto ciò che non è espressamente permesso, è vietato.
  • Gli economisti pensano sempre che le persone sono razionali e agiranno sempre in modo da sfruttare al meglio le condizioni trovate, come se non avessero dietro alcuna storia.
  • Se all’epoca le autorità si fossero concentrate sullo sviluppo di una narrazione critica sull’Urss, se avessero tentato di misurarsi con il terrore e di creare un’identità della Russia basata non sull’idea della sua grandezza ma della sua bontà, la storia sarebbe andata diversamente. [...] Molti Stati che in passato furono imperi ce l’hanno fatta. Prendiamo i Paesi scandinavi: hanno sostituito l’imperativo della grandezza con la bontà e questa narrazione gli ha giovato.
  • [«Lei scrive che il trauma russo si è rivelato così persistente perché non si sono fatti i conti con il passato.»]
    E non si faranno, perché come potrebbe la Russia fare questi conti? I tedeschi sono riusciti a farli con il passato nazista, ma per loro è stato più facile. Il regime era durato solo 13 anni, quindi la maggior parte degli adulti ricordava ancora i tempi precedenti. E poi hanno potuto operare la suddivisione in artefici, vittime e spettatori passivi: lo scopo di ogni totalitarismo è la loro eliminazione, solo che quello tedesco non ne ebbe il tempo. Da noi gli artefici e le vittime furono le stesse persone, per quanto in proporzioni diverse. [...] Infine, nell’Urss il terrore era diretto verso l’interno. Nella Germania nazista suo oggetto era altro: l’ebreo, lo zingaro, l’omosessuale, lo slavo. Un tedesco poteva dire: «Siamo stati orribili perché abbiamo fatto questo agli altri». Non è cosa facile, ma è molto più difficile ammettere: lo abbiamo fatto a noi stessi, per giunta senza motivo.
  • [«Perché nella Russia di Putin sono diventate capro espiatorio le persone Lgbt?»]
    Perché non solo avevano tutti i tratti caratteristici di ebrei o musulmani, simbolizzavano anche l’Occidente. Un capro espiatorio ideale. Se desideri eliminare tutto ciò che dopo la dissoluzione dell’Urss è venuto dall’Occidente, devi liberarti di gay e lesbiche. Perché ovviamente prima del 1991 non esistevano.
  • [Su Donald Trump] Perché mai il presidente degli USA incita alla violenza? In parte perché lui stesso è brutale, ma anche perché è più facile tenere sotto controllo una società in una situazione di violenza permanente.
  • Da una parte i gay in Russia sono ritenuti quasi animali, e dall’altra sono considerati individui dotati di un’enorme forza pericolosa. Un mostro è, insieme, meno di un uomo e un superuomo. Gli americani percepivano allo stesso modo i musulmani: primitivi, inferiori dal punto di vista della civilizzazione, e allo stesso tempo abbastanza forti da bucare un edificio con l’aereo.
  • È divertente che la mia biografia di Putin sia stata accolta bene, ma che in ogni recensione si riscontri la stessa osservazione: Gessen scrive che lui è stupido, ma gli stupidi non diventano così potenti. Che dire, gli americani sanno ormai che anche l’uomo più potente del mondo può avere problemi con l’ortografia, può non saper assimilare un testo senza illustrazioni o concentrarsi su qualcosa per più di tre secondi. Non ho una spiegazione intelligente per tale fenomeno, ma abbiamo stabilito empiricamente che è possibile che un idiota conquisti un potere enorme.

Intervista di Roberto Saviano, corriere.it, 23 marzo 2022

  • [Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022] Non c'è soluzione finché Putin sarà vivo.
  • [«Cosa risponderebbe a chi dice che questa guerra è colpa della Nato?»] Rispondo che è una cazzata, che è propaganda del Cremlino e ogni volta che vi si prende parte, la si amplifica. Penso che nella politica interna russa, e nel pensiero di Putin, ci sia un importante evento che è la guerra aerea in Kosovo, che è molto diversa dall'idea di espansione della Nato perché il Kosovo non è membro della Nato, ma sì, quella era una campagna della Nato, e la campagna era guidata dagli Stati Uniti. Penso che ciò che è accaduto in Kosovo abbia avuto un ruolo determinante nel creare una storia che premettesse a Putin di fare quello che sta facendo e di alimentare una politica di risentimento; ciò che è accaduto in Kosovo ha avuto un ruolo importante nel creare il Putinismo e il desiderio della guerra, e ha creato una connessione forte tra la guerra in Kosovo e questa terribile guerra che vediamo. Riguardo al dire che questa guerra è generata dall'espansione della Nato è una cazzata.
  • L'Ucraina, incredibilmente, a differenza di molte altre repubbliche post sovietiche, non è ricaduta nel totalitarismo. Al contrario è rimasta in uno stato transitorio di auto-invenzione nel corso degli ultimi 31 anni. È diventata culturalmente un'entità sempre più nettamente distinta dalla Russia, e non intendo a livello linguistico o per bagaglio culturale in sento stretto, che è ciò che Putin considera cultura. Intendo altro, ovvero il modo in cui si vive e il modo in cui si sviluppa la cultura, di cosa parla la gente, come pensa, come si istruisce. È un Paese molto diverso. Ci sono stati momenti, e non è più una sorpresa, il mondo ormai lo sa, in cui l'Ucraina ha avuto frangenti di coesione culturale incredibili. Mi riferisco in particolare a entrambe le rivoluzioni, la rivoluzione arancione e la rivoluzione della dignità. Le persone, per tre mesi, sono rimaste nelle piazze d'inverno, al freddo estremo e non se ne andavano nemmeno quando venivano attaccati. Anzi, arrivarono altre persone quando chi era in piazza fu attaccato. Arrivarono le madri, e quando aprirono il fuoco, nessuno se ne andò. È diventata la storia del Paese, cioè essere disposti a sacrificarsi per la libertà.
  • Per l'Ucraina storia non significa destino. Un Paese che ha fatto le stesse esperienze della Russia e cioè settant'anni di totalitarismo, oltre tre milioni di persone morte per la sete di potere di un uomo durante il terrore stalinista, la Seconda guerra mondiale — l'Ucraina ebbe in proporzione più morti di qualsiasi altro Paese al mondo — esce da tutto questo come una nazione orientata verso il futuro, capace di auto inventarsi. La Russia, al contrario, è uscita dal secolo scorso incapace di guardare al futuro. Incapace di raccontare una storia nuova, se non quella della sua grandezza passata. Quindi l'esistenza dell'Ucraina è stata ed è ancora un costante promemoria del fallimento della Russia ad andare avanti.
  • La grande guerra patriottica è servita alla Russia contemporanea per giustificare tutto: il terrore staliniano arrivato prima della guerra, il predominio su mezza Europa arrivato dopo la guerra, la rivendicazione continua contro tutti i Paesi europei. Quando sceglie di combattere una guerra, la Russia deve combattere la Seconda guerra mondiale, che era una guerra contro i nazisti. La cosa incredibile è che oggi gli ucraini stanno combattendo una grande guerra patriottica, quindi sono i russi a comportarsi da nazisti, commettendo un genocidio. Quello che Putin sostiene, cioè che non esiste la nazione ucraina, è un'affermazione genocida. Scrivono ovunque la lettera Z — che è la nuova svastica — ovunque, incluse le porte delle case degli oppositori alla guerra in Russia. Stanno avendo i tipici atteggiamenti da nazisti eppure chiamano gli ucraini nazisti, mentre gli ucraini stanno combattendo la loro grande guerra patriottica.
  • [Sui diritti LGBT in Russia] La maggior parte delle persone Lgbt avrebbero preferito essere lasciata in pace e vivere la loro vita borghese, se Putin non avesse deciso di rendere le persone Lgbt il nemico numero uno. Ma è così, e l'ha deciso quasi 10 anni fa, quando ha affrontato le proteste di massa e deciso di screditare coloro che protestavano chiamandoli "queer". Ha funzionato, in un certo senso. Denigrare la comunità Lgbtq+ è una pratica orientata al passato, anche in altri Paesi, anche negli Usa è stato così, con Donald Trump. Appena arrivato alla Casa Bianca ha iniziato a fare retromarcia sui diritti Lgbt perché rappresentano un segno di modernità, il cambiamento più recente e più rapido, ecco perché per questa politica "vecchio stile" è importante dire "torniamo al passato, al sentiero immaginario". Cosa succederà alle persone Lgbt in Russia? Quello che succede a tutti i bersagli. Saranno in maggiore pericolo.

Newyorker.com, 9 dicembre 2023; tradotto in contropiano.org, 16 dicembre 2023

  • Ci sono ora dozzine di "commissari antisemitismo" in tutta la Germania. Non hanno una singola descrizione del lavoro o un quadro legale per il loro lavoro, ma gran parte sembra consistere nel mettere pubblicamente alla berlina coloro che considerano antisemiti, spesso per "de-singolarizzare l'Olocausto" o per criticare Israele. Quasi nessuno di questi commissari è ebreo. In effetti, la proporzione di ebrei tra i loro bersagli è sicuramente più alta.
  • L'insistenza sulla singolarità dell'Olocausto e sulla centralità dell'impegno della Germania a farci i conti sono due facce della stessa medaglia: posizionano l'Olocausto come un evento che i tedeschi devono sempre ricordare e menzionare, ma non devono temere di ripetere, perché è diverso da qualsiasi altra cosa sia mai successa o succederà. [...] Alcuni dei grandi pensatori ebrei sopravvissuti all'Olocausto hanno trascorso il resto della loro vita a cercare di dire al mondo che quell'orrore, pur essendo stato unico e mortale, non doveva essere visto come un'aberrazione. Il fatto che l'Olocausto sia accaduto significa che era possibile – e rimane possibile.
  • Molti ebrei americani si recano in Polonia per visitare quel poco, se non nulla, che è rimasto dei vecchi quartieri ebraici, per mangiare cibo ricostruito secondo le ricette lasciate dalle famiglie scomparse da tempo e per fare visite guidate alla storia ebraica, ai ghetti ebraici e ai campi di concentramento nazisti. Io sono più vicina a questa storia. Sono cresciuta in Unione Sovietica negli anni Settanta, nell'ombra sempre presente dell'Olocausto, perché solo una parte della mia famiglia era sopravvissuta e perché la censura sovietica sopprimeva ogni menzione pubblica. Quando, intorno ai nove anni, seppi che alcuni criminali di guerra nazisti erano ancora a piede libero, smisi di dormire. Immaginavo che uno di loro si arrampicasse sul balcone del quinto piano per rapirmi.
  • Le guerre per la memoria dell'Olocausto in Polonia si sono svolte parallelamente a quelle della Germania. Le idee che si combattono nei due Paesi sono diverse, ma una caratteristica costante è il coinvolgimento dei politici di destra nella collaborazione con lo Stato di Israele. Come in Germania, gli anni Novanta e Duemila hanno visto ambiziosi sforzi di commemorazione, sia nazionali che locali, che hanno rotto il silenzio degli anni sovietici. I polacchi costruirono musei e monumenti per commemorare gli ebrei uccisi nell'Olocausto – che fece metà delle vittime nella Polonia occupata dai nazisti – e la cultura ebraica che andò perduta con loro. Poi arrivò il contraccolpo. Ha coinciso con l'ascesa al potere del partito di destra e illiberale "Diritto e Giustizia", nel 2015. I polacchi volevano una versione della storia in cui fossero vittime dell'occupazione nazista insieme agli ebrei, che avevano cercato di proteggere dai nazisti. Non è vero: i casi di polacchi che rischiano la vita per salvare gli ebrei dai tedeschi, come nel caso di mia cugina Anna, sono estremamente rari, mentre è frequente il caso opposto – intere comunità o strutture dello Stato polacco pre-occupazione, come la polizia o gli uffici comunali, che compiono omicidi di massa di ebrei. Ma gli storici che hanno studiato il ruolo dei polacchi nell'Olocausto sono stati attaccati.
  • Durante le guerre polacche per la memoria dell'Olocausto, Israele ha mantenuto relazioni amichevoli con la Polonia. Nel 2018, Netanyahu e il primo ministro polacco Mateusz Morawiecki hanno rilasciato una dichiarazione congiunta contro "le azioni volte a incolpare la Polonia o la nazione polacca nel suo complesso per le atrocità commesse dai nazisti e dai loro collaboratori di diverse nazioni". La dichiarazione affermava, falsamente, che "le strutture dello Stato clandestino polacco, supervisionate dal governo polacco in esilio, hanno creato un meccanismo di aiuto e sostegno sistematico al popolo ebraico". Netanyahu stava costruendo alleanze con i governi illiberali dei Paesi dell'Europa centrale, come la Polonia e l'Ungheria, in parte per impedire che un consenso anti-occupazione si consolidasse nell'Unione Europea. Per questo, era disposto a mentire sull'Olocausto.
  • Il Presidente ucraino, Volodymyr Zelensky, ha intrapreso una seria campagna per ottenere il sostegno di Israele all'Ucraina. Nel marzo 2022 ha tenuto un discorso alla Knesset, in cui non ha sottolineato la propria origine ebraica, ma si è concentrato sull'inestricabile legame storico tra ebrei e ucraini. Ha tracciato paralleli inequivocabili tra il regime di Putin e il partito nazista. Ha persino affermato che ottanta anni fa gli ucraini salvarono gli ebrei (ma ciò che ha funzionato per il governo di destra della Polonia non ha funzionato per il Presidente pro-europeo dell'Ucraina. Israele non ha dato all'Ucraina l'aiuto che ha implorato nella sua guerra contro la Russia, un Paese che sostiene apertamente Hamas e Hezbollah).
  • [Sulla Giornata della vittoria] La Seconda guerra mondiale è l'evento centrale del mito storico russo. Durante il regno di Vladimir Putin, mentre gli ultimi che hanno vissuto la guerra stanno morendo, gli eventi commemorativi si sono trasformati in carnevali che celebrano il vittimismo russo. L'URSS ha perso almeno ventisette milioni di persone in quella guerra, un numero sproporzionato di ucraini. L'Unione Sovietica e la Russia hanno combattuto quasi ininterrottamente dal 1945, ma la parola "guerra" è ancora sinonimo di Seconda Guerra Mondiale e la parola "nemico" è usata in modo intercambiabile con "fascista" e "nazista". Questo ha reso molto più facile per Putin, nel dichiarare una nuova guerra, bollare gli ucraini come nazisti.
  • [Sul conflitto Gaza-Israele del 2023] Netanyahu ha paragonato gli omicidi di Hamas al festival musicale all'"Olocausto dei proiettili". Questo paragone, ripreso e fatto circolare dai leader mondiali, compreso il presidente Biden, serve a rafforzare le ragioni di Israele per infliggere una punizione collettiva ai residenti di Gaza. Allo stesso modo, quando Putin dice "nazista" o "fascista", intende dire che il governo ucraino è così pericoloso che la Russia è giustificata a bombardare a tappeto, assediare le città ucraine e uccidere i civili ucraini. Ci sono differenze significative, naturalmente: la Russia sostiene che l'Ucraina l'ha attaccata per prima e dipinge il governo ucraino come fascista, ma Hamas è una potenza tirannica che ha attaccato Israele e commesso atrocità che non possiamo ancora comprendere appieno. Ma queste differenze hanno importanza quando si tratta di uccidere dei bambini?
  • Così come gran parte della pretesa di impunità di Israele risiede nello status di vittima perpetua degli ebrei, molti critici del Paese hanno cercato di giustificare l'atto terroristico di Hamas come una risposta prevedibile all'oppressione di Israele sui palestinesi. Al contrario, agli occhi dei sostenitori di Israele, i palestinesi di Gaza non possono essere vittime perché Hamas ha attaccato Israele per primo. La lotta su una legittima rivendicazione di vittimismo si protrae all'infinito.
  • Negli ultimi diciassette anni, Gaza è stata un complesso iperdensamente popolato, impoverito e murato, dove solo una piccola parte della popolazione aveva il diritto di uscire anche solo per un breve periodo di tempo: in altre parole, un ghetto. Non come il ghetto ebraico di Venezia o un ghetto di una città americana, ma come un ghetto ebraico in un Paese dell'Europa orientale occupato dalla Germania nazista. Nei due mesi successivi all'attacco di Hamas contro Israele, tutti i gazawi hanno sofferto per l'assalto appena interrotto delle forze israeliane. Migliaia di persone sono morte. In media, a Gaza viene ucciso un bambino ogni dieci minuti. Le bombe israeliane hanno colpito ospedali, reparti di maternità e ambulanze. Otto gazawi su dieci sono ormai senza casa, si spostano da un luogo all'altro, senza mai riuscire a mettersi in salvo.
  • I nazisti sostenevano che i ghetti erano necessari per proteggere i non ebrei dalle malattie diffuse dagli ebrei. Israele ha sostenuto che l'isolamento di Gaza, come il muro in Cisgiordania, è necessario per proteggere gli israeliani dagli attacchi terroristici compiuti dai palestinesi. La rivendicazione nazista non aveva alcun fondamento nella realtà, mentre quella israeliana deriva da atti di violenza effettivi e ripetuti. Si tratta di differenze essenziali. Tuttavia, entrambe le rivendicazioni propongono che un'autorità occupante possa scegliere di isolare, immiserire e, ora, mettere mortalmente in pericolo un'intera popolazione in nome della protezione della propria.
  • [Sulla guerra arabo-israeliana del 1948] Gli ebrei hanno preso le armi nel 1948 per rivendicare la terra che era stata loro offerta da una decisione delle Nazioni Unite di dividere quella che era stata la Palestina controllata dagli inglesi. I palestinesi, sostenuti dagli Stati arabi circostanti, non accettarono la spartizione e la dichiarazione di indipendenza di Israele. Egitto, Siria, Iraq, Libano e Transgiordania invasero il proto-Stato israeliano, dando inizio a quella che oggi Israele chiama Guerra d'Indipendenza. Centinaia di migliaia di palestinesi fuggirono dai combattimenti. Quelli che non lo fecero furono cacciati dai loro villaggi dalle forze israeliane. La maggior parte di loro non fu mai in grado di tornare. I palestinesi ricordano il 1948 come la Nakba, una parola che in arabo significa "catastrofe", così come Shoah significa "catastrofe" in ebraico. Il fatto che il paragone sia inevitabile ha spinto molti israeliani ad affermare che, a differenza degli ebrei, i palestinesi si sono procurati la catastrofe da soli.
  • La Russia usa allegramente il culto ucraino di Bandera come prova che l'Ucraina è uno Stato nazista. Gli ucraini rispondono per lo più sbianchettando l'eredità di Bandera. È sempre più difficile per le persone concepire l'idea che qualcuno possa essere stato il nemico del tuo nemico e tuttavia non una forza benevola. Una vittima e anche un carnefice. O viceversa.

Discorso dopo aver vinto il premio Hanna Arendt, it.gariwo.net, 19 dicembre 2023

  • Perché facciamo paragoni? Paragoniamo per imparare. Questo è il modo in cui comprendiamo il mondo. Un colore è un colore solo tra gli altri colori. Una forma è una forma solo perché è distinta dalle altre forme. Un sentimento è un sentimento solo se hai provato altri sentimenti.
  • [...] esiste una regola – e certamente non vale solo per la Germania – secondo cui non si paragonano le cose all’Olocausto. C’è un paradosso: immaginiamo l’Olocausto nei minimi dettagli, ma lo concepiamo fondamentalmente inimmaginabile. È il tipo di male che non possiamo comprendere. Ma tutto ciò che accade nel presente è, per definizione, immaginabile. Possiamo vederlo. Anche i bambini piccoli separati dai genitori al confine degli Stati Uniti e messi in detenzione sono immaginabili quando vediamo le loro immagini sui nostri schermi e ascoltiamo le loro voci nelle registrazioni audio. Pertanto, quando nel 2019 la deputata Alexandria Ocasio Cortez ha utilizzato le parole "campi di concentramento" per descrivere le strutture di detenzione dei migranti, questo confronto ha suscitato entusiasmo, tra le altre ragioni, perché ha posto l’immaginabile – una pratica regolare del governo degli Stati Uniti – accanto all’inimmaginabile. Tutto ciò che è immaginabile per il fatto stesso di essere visto, ascoltato, testimoniato, ci sembra incomparabile con l’Olocausto.
  • Ho passato gran parte degli ultimi due anni a riferire sulla guerra in Ucraina e in particolare sui crimini di guerra russi in Ucraina. E ho visto come i paragoni con l'Olocausto, concetti nati dalla resa dei conti con l'Olocausto, si sono fatti strada nei discorsi non solo di avvocati internazionali, ma anche di investigatori locali e gente comune in posti come Bucha. Li vedo costantemente analizzare: cosa costituisce un genocidio? Il trasferimento forzato di persone in Russia è una componente del genocidio? Il genocidio richiede che le persone che lo compiono lo considerino un genocidio? Il genocidio richiede un intento? Richiede un intento articolato? Non possiamo pensare a queste cose senza pensare ad altri genocidi – e al genocidio che ha accelerato la creazione di questi quadri giuridici.

Sulla morte di Aleksej Naval'nyj, vanityfair.it, 20 febbraio 2024

  • Anno dopo anno, ha tenuto testa alla potenza di uno degli Stati più crudeli del mondo e alla vendetta di uno degli uomini più crudeli del mondo
  • Putin non poteva che provare invidia per la capacità di Navalny di mobilitare i russi.
  • Putin era da tempo terrorizzato dalle proteste di massa. Ora doveva avere altrettanta paura di Navalny, un uomo la cui sola esistenza sembrava infondere alle persone le energie per superare le proprie paure.
  • Si è tentati di leggere l’evidente omicidio di Navalny, come hanno fatto alcuni analisti statunitensi, come un segno di debolezza da parte di Putin. Ma la capacità di un dittatore di annientare ciò che teme è una misura della sua presa sul potere, così come lo è la sua capacità di scegliere il momento in cui colpire.
  • Inizialmente era collocato su posizioni etno-nazionaliste, a volte apertamente xenofobe e liberali. Ha sostenuto il diritto a possedere armi e la repressione dei migranti. Ma ha trovato la sua agenda e la sua voce politica nel documentare la corruzione. Ha costruito un movimento basato sulla premessa che i cittadini, anche in Russia, potrebbero e dovrebbero esercitare il controllo sul modo in cui viene speso il denaro pubblico. Negli anni successivi ha abbandonato il nazionalismo etnico in favore di un nazionalismo civico, evolvendo da liberale a socialdemocratico.
  • La voce pubblica di Navalny era piena di ironia senza essere cinica. Considerava i soggetti delle sue indagini uomini ridicoli con grandi yacht, piccoli ego e un cattivo gusto sconcertante. Ha preso sul serio i loro abusi ridimensionandoli. Metà del suo carisma nasce da qui.
  • Leggere i suoi popolarissimi account sui social media era come guardare una commedia romantica, ma con protagonista un supereroe.
  • Il lavoro di Navalny ha dato vita a un’intera generazione di media investigativi russi indipendenti, molti dei quali continuano a lavorare in esilio, documentando non solo le ricchezze provenienti da attività criminali ma anche i crimini di guerra e le attività degli assassini della Russia in patria e all’estero.
  • Si immaginava come il Nelson Mandela della Russia: sarebbe sopravvissuto al regno di Putin e sarebbe diventato presidente. Forse era convinto che gli uomini con cui stava combattendo fossero capaci di provare imbarazzo e non avrebbero osato ucciderlo dopo aver dimostrato di averci provato.
  • Nel corso degli anni avevamo discusso in più di un’occasione della natura sostanziale di Putin e del suo regime. Lui diceva che erano «truffatori e ladri», io ribattevo che erano assassini e terroristi. Quando uscì dal coma gli chiesi se si fosse finalmente convinto che si trattava di assassini. Mi rispose di no. Uccidono per proteggere la loro ricchezza. Sono semplicemente avidi. Ne aveva una considerazione troppo alta. In realtà sono assassini.

Sull'invasione russa dell'Ucraina del 2022, internazionale.it, 23 febbraio 2024

  • Oggi c’è una frase molto comune in Ucraina: “Nessuno di noi tornerà da questa guerra”. La gente può emigrare o trasferirsi, ma la guerra è sempre qui. E ci resterà. La frase è vera anche in senso letterale: delle centinaia di migliaia di persone arruolate nei primi giorni dell’invasione, solo quelle gravemente ferite sono state congedate.
  • Fino a qualche mese fa tutti in Ucraina sembravano sapere come sarebbe finita la guerra: l’Ucraina avrebbe liberato i suoi territori, Crimea compresa, e questo avrebbe fatto scoppiare la bolla della propaganda russa, provocando il collasso del regime di Vladimir Putin. Ma la tanto attesa controffensiva ucraina, lanciata nella primavera del 2023, non è riuscita a segnare una svolta decisiva. La Russia occupa ancora il 20 per cento circa del territorio ucraino.
  • È un luogo comune sostenere che l’Ucraina è in guerra non solo per la sua sopravvivenza ma per il futuro della democrazia in Europa e altrove. Nel frattempo, però, nel paese la democrazia è in larga misura sospesa. Le elezioni presidenziali erano previste per il prossimo marzo. Fino alla fine di novembre Zelenskyj sembrava disposto a farle svolgere, ma alla fine ha deciso diversamente.
  • Oggi tra i quattro e i sei milioni di ucraini vivono sotto l’occupazione russa, almeno altri quattro si trovano nei paesi dell’Unione europea, un altro milione vive in Russia e almeno mezzo milione risiede altrove all’estero. Altri quattro milioni sono sfollati interni. Queste cifre includono un gran numero di persone diventate maggiorenni dopo l’inizio della guerra e quindi assenti dai registri elettorali.
  • Volodymyr Zelenskyj – un ex comico protagonista di una serie tv in cui, sull’onda di una diffusa insofferenza per la classe dirigente del paese, un ingenuo insegnante conquista la presidenza della repubblica – è stato eletto quando l’Ucraina cercava un leader che non facesse il politico di professione. Zelenskyj aveva promesso di restare al potere per un solo mandato. Per le elezioni parlamentari del 2019, successive al suo insediamento alla presidenza, nelle liste del suo partito Servo del popolo c’erano solo candidati senza esperienza politica. “Solo facce nuove” era lo slogan. Il partito ha ottenuto 254 seggi su 450. Oggi, con le elezioni rinviate a data da definire, Zelenskyj e i giovani entrati in politica con lui rischiano di diventare come i vecchi funzionari che avevano promesso di sradicare: incollati alla poltrona.
  • La legge marziale ha di fatto bloccato o cancellato alcune delle più importanti riforme democratiche adottate dopo Euromaidan, per esempio la decentralizzazione e l’elezione diretta delle amministrazioni locali. Ai sindaci in carica sono subentrate amministrazioni militari. Il risultato è un mosaico di autorità pubbliche che varia da regione a regione e da città a città. A novembre, dopo mesi di conflitto tra l’esercito e i consigli comunali sulla riscossione delle imposte sul reddito pagate dal personale militare, Zelenskyj ha firmato una legge che assegna i soldi alla difesa.
  • L’Ucraina ha usato i droni fin dai primi giorni della guerra. Inizialmente erano strumenti di piccola taglia, acquistati con il crowdfunding in occidente. I russi erano in ritardo su questa tecnologia, ma nel frattempo hanno cominciato a produrli su vasta scala, mentre gli ucraini erano impegnati nei preparativi per la controffensiva. Ora sono loro ad affannarsi per tenere il passo del nemico.
  • Tutte le persone con cui ho parlato in Ucraina negli scorsi mesi hanno detto che non pensano più alla fine del conflitto. Non riescono a immaginarla. E questo il segnale più preoccupante. Dopotutto, la democrazia è la convinzione che il mondo può migliorare. Gli ucraini, però, non si arrendono.

Il futuro è storia

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Mi sono state raccontate molte storie sulla Russia, e alcune ne ho raccontate anche io. Quando avevo undici o dodici anni, sul finire degli anni Settanta, mia madre mi raccontava che la Russia era uno Stato totalitario; lo paragonava al regime nazista, una considerazione e un'affermazione straordinarie per un cittadino sovietico. I miei genitori mi dicevano che il regime sovietico sarebbe durato in eterno, ed era per quel motivo che dovevamo lasciare il paese.

Citazioni

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  • Il regime sovietico privò la popolazione non solo della possibilità di vivere liberamente, ma anche della capacità di comprendere appieno quel che le era stato sottratto, e in che modo. Il regime si prefiggeva l'obiettivo di annientare la memoria storica e individuale, nonché gli studi teorici sulla società. L'offensiva concertata contro le scienze sociali fece sì che, per decenni, gli studiosi occidentali si trovassero in posizione migliore rispetto ai loro omologhi russi per interpretare le vicende della Russia, ma, in quanto osservatori esterni, con accesso limitato alle informazioni, essi non erano di certo in condizione di colmare quella lacuna. Ben più che una questione puramente accademica, si trattò di un attacco all'umanità stessa della società russa, che smarrì gli strumenti e persino il linguaggio necessari per comprendersi. Le uniche storie su se stessa, che la Russia raccontava a se stessa, erano quelle create dagli ideologi sovietici. Se un paese, nell'epoca contemporanea, è privo di sociologi, psicologi o filosofi, che cosa può sapere di sé? E i suoi cittadini, che cosa possono sapere di loro stessi? (p. 16)
  • Gli atenei sovietici rientravano generalmente in due categorie: quelli che non ammettevano assolutamente alcun ebreo e quelli che ne ammettevano in numero strettamente limitato. Le regole della non ammissione, ovviamente, non erano rese pubbliche; il rigetto della domanda era comunicato con modalità particolarmente sadiche. I candidati ebrei sostenevano gli esami d'ammissione insieme a tutti gli altri aspiranti studenti. Ritiravano i fogli con le domande d'esame dalla stessa pila degli altri. Ma se riuscivano a rispondere correttamente alle due o tre domande del foglio, a quel punto, soli nell'aula con gli esaminatori, erano sottoposti con nonchalance a un'ulteriore domanda, come se fosse una continuazione delle risposte già date. Era questa la «bara». In matematica, si trattava generalmente di un problema non soltanto complesso ma irrisolvibile. Il candidato avrebbe esitato e sarebbe andato a picco. Gli esaminatori, poi, sigillavano il coperchio della bara: il candidato ebreo aveva fallito l'esame. (pp. 27-28)
  • Per ottenere parità di condizioni, o qualcosa che vi somigliasse anche solo lontanamente, occorreva non essere ebrei. La propria «nazionalità» – quella che gli americani definiscono «appartenenza etnica» – era annotata su tutti i documenti d'identità importanti, dal certificato di nascita al passaporto interno, dall'atto di matrimonio alla scheda personale sul posto di lavoro o a scuola. Una volta assegnata, la «nazionalità» era di fatto immutabile e si trasmetteva di generazione in generazione. (p. 28)
  • Tutti coloro che riflettevano sull'Unione Sovietica, dentro e fuori il paese, avevano in comune due handicap: dovevano basare le loro conclusioni su conoscenze frammentarie e formulare in un linguaggio inadeguato allo scopo. Oltre a occultare tutte le informazioni essenziali e gran parte di quelle non essenziali dietro un muro di segreti e menzogne, il paese, per decenni, condusse una guerra a tutto campo contro il sapere stesso. La battaglia più simbolica di questa guerra, per quanto non la più violenta, fu combattuta nel 1922, quando Lenin ordinò la deportazione all'estero di almeno duecento (le stime degli storici variano) intellettuali – dottori, economisti, filosofi e altri – per mezzo di quella che divenne nota come la «nave dei filosofi» (in realtà le imbarcazioni furono più di una). Le deportazioni furono fatte passare per un'alternativa umana alla pena di morte. Le successive generazioni di intellettuali non furono altrettanto fortunate: chi era ritenuto sleale nei confronti del regime veniva imprigionato, spesso giustiziato, e quasi sempre allontanato dalla sua disciplina d'elezione. Con l'evolversi del regime, le restrizioni imposte alle scienze sociali si andarono ampliando e, per effetto del mero trascorrere degli anni, si fecero sempre più profonde. Mentre la corsa agli armamenti incentivava il governo sovietico a coltivare e a rammodernare le scienze esatte e la tecnologia, non c'era nulla – o quasi – che potesse motivare il regime a promuovere lo sviluppo della filosofia, della storia e delle scienze sociali. Queste discipline si atrofizzarono a tal punto che, come scrisse un importante economista russo nel 2015, i maggiori economisti sovietici degli anni Settanta non erano in grado di comprendere il lavoro svolto da quelli che li avevano preceduto di mezzo secolo. (pp. 35-36)
  • Il marxismo in Unione Sovietica si era ridotto a una semplice convinzione di vita materiali. Se l'individuo era plasmato in maniera appropriata – e non poteva essere altrimenti, dato che il sistema sovietico affermava ormai di aver sostanzialmente realizzato il progetto marxista, costruendo quello che veniva definito «socialismo reale» – doveva per forza esprimere un insieme di obiettivi perfettamente coincidenti con i bisogni della società che lo aveva prodotto. Le anomalie erano senz'altro possibili, ma rientravano in due categorie: criminalità o malattia mentale. La società sovietica disponeva di istituzione in grado di affrontarle entrambe. Nessun altro genere di discordanza era concepibile. I conflitti interiori non erano previsti. Non c'era davvero alcun motivo per affrontare il tema della psiche. (pp. 43-44)
  • L'estinzione della psicoanalisi russa decretò di fatto la fine di qualsiasi studio della psiche: da una parte perché la psicoanalisi aveva egemonizzato la psicologia e dall'altra perché il nuovo Stato adesso rifiutava qualsiasi interpretazione del comportamento umano che non fosse semplice e materiale. Le teorie lineari di causa ed effetto di Ivan Pavlov si confacevano perfettamente a tale approccio; non restava altro che condizionare l'intera popolazione, rendendola malleabile e prevedibile. (p. 46)
  • La sociologia non era propriamente bandita in Unione Sovietica, ma il nome della disciplina era stato ridotto a una sorta di parolaccia. Era stato lo stesso Lenin a inaugurarne l'uso offensivo. Il problema con la sociologia era praticamente identico a quello con la psicoanalisi: la materia non si prestava a essere una «scienza» utilizzabile per costruire una nuova società di uomini nuovi. (p. 52)
  • Paradossalmente, furono proprio le peculiarità del sistema economico sovietico a rendere le divisioni tra gruppi di cittadini valutati differentemente più rigide e più impenetrabili. La tassazione era ridotta al minimo e la redistribuzione della ricchezza non figurava tra gli obiettivi. Poiché gran parte delle gratifiche riservate ai privilegiati erano di natura non monetaria ed erano gestite tutte in modo centralizzato, gli appartenenti a una data casta si trovavano a essere raggruppati socialmente e geograficamente. I membri del Politburo vivevano tutti negli stessi edifici, si rifornivano di beni di consumo negli stessi centri di distribuzione, mandavano i loro figli nelle stesse scuole, si facevano curare negli stessi ospedali, ricevevano in concessione appezzamenti di terreno su cui costruire una dacia di legno – la casa per i weekend o per le vacanze estive – nella stessa zona e consumavano le acque degli stessi sanatori. Discorso analogo per i membri dell'Academia delle Scienze, che avevano le loro strutture riservate, e per i membri di ciascuna delle varie «leghe creative», quali quelle degli scrittori, degli artisti o dei cineasti. (pp. 66-67)
  • La perestrojka era un'idea apparentemente irrealizzabile. Il Partito intendeva servirsi della propria struttura verticistica per rendere il paese, e se stesso, meno governato dal vertice. Un sistema le cui piaghe primarie erano la stagnazione e la rigidità intendeva modificare se stesso. Il risvolto peggiore, probabilmente insormontabile, era che coloro i quali, fino a quel momento, avevano avuto come unico interesse quello di restare attaccati al potere e assicurarsi tornaconti personali, erano gli stessi che avrebbero dovuto concepire un cambiamento tale da smantellare le gerarchie di comando ed eventualmente estromettersi. Il sistema resisteva istintivamente al cambiamento e un gran numero di individui tramavano scientemente per sabotarlo. (p. 77)
  • L'Homo Sovieticus, come i personaggi di 1984, aveva la capacità di sostenere un'idea, e contemporaneamente, il suo opposto. Queste opinioni procedevano su binari paralleli, e fintanto che i binari non si incrociavano, non erano in conflitto: a seconda della situazione, l'Homo Sovieticus poteva ricorrere all'una o all'altra proposizione della coppia antinomica, talvolta l'una dopo l'altra in rapida successione. (p. 97)
  • L'Homo Sovieticus non era indottrinato. Anzi, non sembrava possedere alcun genere di opinioni particolarmente salde. Il suo mondo interiore era fatto di antinomie, il suo obiettivo era la sopravvivenza, e la sua strategia una negoziazione continua – la circolarità dei giochi del bipensiero. (p. 103)
  • Nelle democrazie che funzionano, le contraddizioni tra gli ideali professati e la realtà concreta possono essere – e sovente lo sono – evidenziate e contestate, innescando cambiamenti sociali e politici. Ciò non elimina lo scarto connaturato al sistema, tuttavia fa sì che queste società, per gradi, diventino un po' più democratiche e un po' meno inique. [...] Quel che distingue un'ideologia totalitaria è la sua assoluta chiusura verso l'esterno. Pretende di spiegare il mondo intero e tutto ciò che in esso è contenuto. Tra l'ideologia totalitaria e la realtà non vi è alcuno scarto, in quanto l'ideologia racchiude al suo interno l'intera realtà. (p. 146)
  • Il termine «totalitarismo», nella sua accezione comune in Occidente, evoca l'immagine di una società mostruosa nella quale la forza viene esercitata contro ciascun individuo in ogni istante. Ovviamente ciò risulterebbe un sistema del tutto inefficiente, anche e a maggior ragione per uno stato estremamente inefficiente quale l'Unione Sovietica. L'uso razionale della forza, nelle società totalitarie, è raggiunto attraverso il terrore. Il totalitarismo istituisce il proprio contratto sociale, in virtù del quale la maggior parte delle persone sarà al riparo dalla violenza per la maggior parte del tempo, a condizione che accettino di non valicare determinati confini e si accollino, in parte, il compito di mantenere altri cittadini all'interno dei medesimi confini. Tali confini sono in costante mutamento [...] e questo obbliga la popolazione a essere sempre all'erta per stare al passo dei mutamenti. Per sopravvivere, è essenziale l'ipersensibilità ai segnali. (pp. 147-148)
  • Nell'Urss del dopoguerra, ogni generazione aveva vissuto discretamente meglio di quella che l'aveva preceduta. Le aspirazioni dei genitori si trasmettevano pressoché identiche ai figli, salvo qualche modifica marginale. Moltissimi cittadini sovietici avevano sperato che, se non loro, quantomeno i figli, da adulti, sarebbero riusciti a passare da una stanza in un appartamento in condivisione a un monolocale di proprietà con tanto di cucina, e magari a un appartamento ancora più grande, con due stanze. Con un po' di fortuna, sarebbero arrivati a possedere addirittura una dacia e una Fiat di fabbricazione sovietica. Nessuno, a parte le élite, si spingeva a fantasticare una residenza signorile o una Volga – e le élite erano prudentemente sottratte alla vista dalle loro sette cancellate e dalle loro sette serrature. Ora, gran parte di ciò che si vedeva in televisione – pubblicità, annunci del governo e perfino le varie soap opera latino-americane che a quanto pareva tutti guardavano – sembrava dire ai russi che dovevano aspirare a qualcosa di più. Solo i vecchi film sovietici, che la televisione trasmetteva ancora, permettevano agli occhi affaticati e alle menti esauste di riposare sulle modeste e rassicuranti certezze di un'epoca ormai tramontata. (pp. 189-190)
  • El'cin, per quanto democratico fosse, aveva l'ossessione spiccamente monarchica di scegliersi un successore. (p. 247)
  • [Sulla seconda guerra cecena] Mentre il cuore dei russi era angosciato per i giovani inviati in guerra, praticamente nessuno sembrava provare compassione per i civili ceceni, in teoria loro connazionali, ancora una volta sotto il tiro dei bombardamenti. Un'altra particolarità rendeva questa nuova guerra in Cecenia diversa dalla precedente: adesso, nella percezione comune, l'offensiva russa era capeggiata da un leader. Mentre El'cin, all'inizio della guerra del 1994, dava l'impressione di qualcuno che si agita in maniera scomposta e disperata, il suo nuovo primo ministro, che cinque anni dopo ricominciò la guerra, era percepito come un impavido difensore del cittadino comune. (p. 286)
  • Crollata l'Unione Sovietica, non per questo i russi smisero di osservarsi nello specchio americano. E quello che videro era umiliante: gli Stati Uniti stavano facendo l'elemosina ai russi, inviando «cosciotti di Bush» e altri alimenti che gli americani stessi non volevano mangiare. L'America non era semplicemente più ricca della Russia – lo erano anche molti altri paesi, e alcuni di essi, come la Svizzera o l'Arabia Saudita, erano più ricchi degli stessi Stati Uniti. Ma a differenza della vecchia Europa, l'America non ripartiva la sua ricchezza secondo una struttura di classi consolidata: era un paese nel quale le opportunità e il successo erano alla portata di tutti, o almeno così sosteneva, e i russi ne erano convinti. Né era una piccola dittatura petrolifera come quella dei sauditi. L'America era la definizione stessa di modernità; era il paese che la Russia non era riuscita a diventare. Ecco un esempio lampante di bipensiero in stile sovietico: l'America era attraente e minacciosa allo stesso tempo, meritevole di essere emulata e al contempo sommamente odiosa. (p. 328)
  • [Sulla rivoluzione arancione] L'intera Russia era come folgorata dallo spettacolo di Kiev. L'anno precedente, la rivoluzione georgiana aveva attirato relativamente poca attenzione, ma ora la rivoluzione ucraina faceva sospettare, o forse sperare, che potesse esserci un modello da seguire. Potrebbe accadere anche in Russia? L'immaginario popolare ignorava le differenze fondamentali tra i due paesi. In Ucraina, ad esempio, le istituzioni si erano sviluppate, mentre quelle russe erano state svuotate di potere durante il primo mandato di Putin. E in Ucraina c'era una Corte suprema operativa e indipendente che poteva intervenire in caso di stallo, mentre l'equivalente russo, la Corte costituzionale, era stata di fatto assoggettata al potere esecutivo. (pp. 336-337)
  • La Russia aveva istituito un sistema di assistenza sanitaria obbligatoria, una politica statale che rimborsava gli ospedali in base al numero di pazienti curati. Ma questa era una struttura che nessuno avrebbe scelto volontariamente, così di notte le ambulanze portavano lì i malati in cambio di una bustarella. (p. 352)
  • Putin si rivolgeva alla maggioranza: persone di mezza età e anziani, persone di reddito medio-basso, il grande pubblico dei canali televisivi. Medvedev si rivolgeva alla minoranza più istruita e benestante che era stata per lo più ignorata durante i due mandati di Putin. (pp. 363-364)
  • In Unione Sovietica l'ideologia si rivelò mutevole. La linea ufficiale si modificò radicalmente, dall'internazionalismo alla «amicizia tra i popoli», dal ritenere la famiglia un anacronismo borghese fino a considerarla il nucleo fondamentale della società sovietica. A rimanere immutata fu l'importanza assegnata alla mobilitazione ideologica (qualunque fosse l'ideologia), e l'idea di eccezionalità del paese. (pp. 408-409)
  • Sulla carta, il dominio del partito unico era stato abolito, ma i suoi uomini erano ancora lì. La vecchia nomenklatura continuava a dominare la società, che conservava la sua struttura «capovolta». Semmai, lo sconvolgimento degli anni Novanta aveva accelerato quel processo di rotazione in virtù del quale persone sempre meno istruite e qualificate ascendevano ai vertici. La censura era stata abolita, ma dopo un breve periodo di libertà i mezzi di comunicazione erano sempre più monopolizzati dallo Stato. Il Kgb aveva cambiato nome e aveva perso parte della sua sfera d'azione (alcune funzioni, come il controllo delle frontiere, gli erano state sottratte), ma in compenso il potere giudiziario rimaneva asservito al potere esecutivo, non era stato istituito uno Stato di diritto e le forze dell'ordine concepivano come propria missione quella di proteggere lo Stato. (pp. 412-413)
  • Nella Russia di Putin, gran parte delle elezioni erano state abolite del tutto: adesso governatori e senatori erano nominati, mentre i rappresentanti della camera bassa erano eletti su indicazione dei partiti tramite una modalità di voto ampiamente spersonalizzata. (p. 527)
  • [Sulla rivoluzione ucraina del 2014] Come la rivoluzione arancione di nove anni prima, le proteste aggregavano persone di idee politiche assai diverse. Cosmopoliti che volevano che il loro paese entrasse a far parte della Comunità europea si accompagnavano a nazionalisti che volevano liberarsi dall'influenza di Mosca. (pp. 574-575)
  • Gran parte dei contenuti del discorso di Putin sulla Crimea riecheggiavano sue precedenti dichiarazioni: la tragedia del collasso dell'Unione Sovietica, l'ipocrisia degli Stati Uniti, la slealtà della Nato, l'idea che l'America orchestri le rivoluzioni e poi imponga i propri valori sulle culture tradizionali, l'immancabile colpo basso che di quei tempi doveva per forza essere di natura omofobica, e perfino il nemico interno, la «quinta colonna». Ma l'idea di una nazione divisa e di un dovere morale verso i connazionali all'estero che prevaleva sulle leggi e sui confini nazionali aveva un antecedente diverso: rievocava direttamente il discorso di Hitler sui Sudeti. (pp. 591-592)
  • Nel 2009, Dugin aveva preconizzato la divisione dell'Ucraina in due Stati separati: la parte orientale si sarebbe alleata con la Russia e quella occidentale avrebbe guardato sempre all'Europa. Per Dugin l'Ucraina era abitata da due popoli distinti – gli ucraini occidentali, che parlavano ucraino, e la popolazione dell'est, una nazionalità che includeva genti di etnia sia russa che ucraina, ma entrambe russe per lingua e cultura. I due popoli, a suo modo di vedere, avevano orientamenti geopolitici fondamentalmente differenti. Ciò significava che l'Ucraina non era uno Stato-nazione. Significava altresì che il suo smembramento era inevitabile – l'unico dubbio era se si sarebbe svolto in modo pacifico. Una guerra era nell'ordine delle cose, aveva messo in guardia all'epoca. (pp. 593-594)
  • Il concetto che Dugin stava cercando di spiegare da anni era che l'idea stessa di universalità dei valori umani fosse fuorviante: l'idea occidentale di diritti umani, per esempio, non doveva ritenersi applicabile a una «civiltà fondata sui valori tradizionali». Una delle definizioni più calzanti ed eloquenti di Dugin era: «Non vi è nulla di universale nell'universalità dei diritti umani». (p. 598)
  • Dugin voleva che Putin invadesse l'Ucraina esplicitamente, ricorrendo all'esercito regolare e prefiggendosi una vittoria gloriosa che avrebbe allargato i confini della Russia. Anzi, sarebbe stato solo l'inizio dell'espansione russa. Ma quando ciò non accadde, Dugin conosceva già il motivo: Putin era frenato dai suoi consiglieri, moderati e fondamentalmente filooccidentali. Coniò un termine nuovo di zecca per definirli: «sesta colonna». Se la «quinta colonna» era rappresentata da gente come Nemcov, che a giudizio di Dugin lavorava a soldo degli Stati Uniti, allora la «sesta colonna» era fatta da coloro che tradivano la propria civiltà, non il proprio paese. Si nascondevano in piena vista: al Cremlino. (pp. 601-602)
  • Quali opzioni offriva questo paese terrorizzante ai suoi cittadini intollerabilmente ansiosi? Potevano raggomitolarsi in uno stato di passività assoluta, oppure aderire a un tutto più grande di loro. Se qualsiasi bene poteva essere sotratto in maniera sommaria, nessuno poteva più sentirsi sicuro che fosse veramente suo. Però poteva compiacersi, assieme agli altri cittadini, che la Crimea fosse «loro». Poteva identificarsi nella visione del mondo paranoica secondo la quale il resto del mondo, guidato dagli Stati Uniti, voleva indebolire e distruggere la Russia. La paranoia offriva un po' di conforto: quantomeno, localizzava con certezza al di fuori dell'individuo, e anche del paese, la fonte di quell'ansia opprimente. Questo senso di appartenenza, e anche la possibilità di affidarsi a qualcuno più forte, era un grande sollievo. Ma appartenere richiedeva una vigilanza continua. Occorreva prestare attenzione: oggi era l'Ucraina la guerra importante che si combatteva, domani poteva essere la Siria. Nella visione del mondo paranoica, la fonte del pericolo era un bersaglio in continuo spostamento. Si poteva provare un senso d'appartenenza, ma non ci si sentiva mai in pieno controllo. (pp. 637-638)
  • Com'era possibile che persone fuggite dall'Unione Sovietica e da Putin votassero per uno come Trump? Ma, naturalmente, non si trattava di persone fuggite dal totalitarismo. La gran parte era arrivata all'epoca in cui l'impero sovietico aveva cominciato a disintegrarsi. Casomai, quello che le aveva spinte a emigrare era proprio la paura del collasso sovietico. Desideravano ritornare al loro passato immaginario: qualora fossero rimasti in Russia sarebbero stati elettori di Putin. Invece, diventarono elettori di Trump. (p. 653)

L'uomo senza volto

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  • La vecchia generazione aveva perso i propri risparmi nell'iperinflazione e la propria identità nel crollo apparente di tutte le istituzioni sovietiche. La generazione più giovane era cresciuta all'ombra delle paure dei genitori e, in molti casi, del loro fallimento. Io invece avevo ventiquattro anni quando l'Unione Sovietica si sfasciò e insieme ai miei coetanei avevo passato gli anni Novanta a inventarmi una carriera in quella che pensavo sarebbe stata la vita nelle istituzioni della nuova società. Anche quando la criminalità violenta divenne ormai prassi comune in Russia, ci sentivamo stranamente sicuri: osservavamo e qualche volta descrivevamo il sottobosco criminale senza nemmeno pensare che avrebbe potuto avere ripercussioni sulla nostra esistenza. (p. 18)
  • Quello che trovai a San Pietroburgo, seconda città più grande della Russia, fu uno Stato dentro lo Stato. Un posto dove il KGB [...] dominava in modo assoluto. I politici e i giornalisti locali ritenevano che i loro telefoni fossero sotto controllo, e pareva che avessero ragione. Un posto dove gli assassinii di personaggi della politica e degli affari erano avvenimenti correnti. Dove affari finiti male potevano facilmente lasciare qualcuno in prigione. In altre parole era molto simile a quello che sarebbe diventato l'intero paese nel giro di pochi anni, quando la Russia sarebbe stata guidata dalla gente che governava San Pietroburgo negli anni Novanta. [...] Per tutti gli anni Novanta, mentre giovani come me si davano da fare per costruirsi delle nuove vite in un nuovo paese, esisteva un mondo parallelo proprio accanto al nostro. San Pietroburgo aveva perfezionato e mantenuto molte delle fondamentali caratteristiche dello Stato sovietico: un sistema di governo che lavorava per eliminare i suoi nemici; un sistema paranoico, chiuso che teneva ogni cosa sotto controllo ed eliminava qualsiasi cosa non riuscisse a controllare. (pp. 25-26)
  • Eltsin nominava un successore dopo l'altro solo per rimanere deluso in un modo drammaticamente pubblico che imbarazzava sia l'oggetto del malcontento del presidente sia tutti coloro che assistevano alla manifestazione di sfiducia. (p. 28)
  • Il governo di Eltsin aveva commesso il grave errore di ignorare il dolore e la paura del paese. In quei dieci anni Eltsin, che era stato un sincero populista, uno che andava in autobus o che saliva sui carri armati se la situazione lo richiedeva, si era a poco a poco ritirato in un mondo impenetrabile e rigorosamente protetto di limousine nere e di riunioni private. (p. 29)
  • Tutto quello che sapeva fare Eltsin era riscoprire i suoi modi populisti: non era capace di nuove sfide o di far rinascere le aspettative; non riusciva a proporre al paese nuovi ideali o una nuova visione. Poteva solo provare a dare alla gente quello che la gente voleva. E quello che la gente voleva non era di certo Eltsin. Dieci milioni di russi lo ritenevano responsabile di tutte le disgrazie che avevano subito nei dieci anni precedenti, colpevole di aver distrutto i loro sogni e le loro speranze – magari anche la loro giovinezza – e lo odiavano visceralmente. Chiunque fosse arrivato alla guida del paese dopo Eltsin sarebbe facilmente diventato popolare se lo avesse processato. (p. 31)
  • [Sulle bombe nei palazzi in Russia] In appena sei mesi i confini del possibile erano cambiati nella mia mente. Adesso potevo credere che molto probabilmente l'FSB fosse dietro agli attentati che scossero la Russia e che contribuirono a portare Putin al potere. Quando l'agenzia improvvisamente si trovò sul punto di essere scoperta – quando milleduecento poliziotti di Rjazan' avevano iniziato la caccia all'uomo armati di una descrizione dettagliata degli agenti FSB che avevano piazzato l'esplosivo – il Servizio di sicurezza tirò fuori la storia della esercitazione, per nulla convincente, ma sufficiente a sventare l'arresto di agenti segreti da parte della polizia ordinaria. Nello stesso tempo cessò la sequenza di esplosioni mortali. (pp. 65-66)
  • Essere stato catapultato al potere dall'oscurità e aver passato tutta la vita adulta all'interno dei confini di una istituzione segreta e molto chiusa ha permesso a Vladimir Putin di esercitare un controllo mirato sulle sue informazioni personali più di ogni altro uomo politico moderno e ancor più di ogni altro uomo politico moderno occidentale. Putin è riuscito a creare il proprio mito. Questo è un aspetto positivo perché, meglio di chiunque altro, ha saputo comunicare esattamente cosa voleva che il mondo sapesse di lui e come voleva che il mondo lo vedesse. Il risultato è in pratica il mito di un giovane nato nella Leningrado post-assedio, un luogo malvagio, affamato e povero che ha fatto crescere giovani malvagi, affamati e feroci. Così almeno erano quelli che sono sopravvissuti. (pp. 72-73)
  • La preoccupazione principale di suo padre, stando ai ricordi, era la disciplina e non la qualità di educazione scolastica che il figlio riceveva. nemmeno per il giovane Putin l'istruzione era parte fondamentale della sua idea di successo: nel descriversi aveva parlato con enfasi della sua reputazione da teppista, e in questo godeva della completa collaborazione dei suoi amici di infanzia. La maggior parte delle informazioni disponibili su di lui – cioè quelle fornite ai suoi biografi – riguarda le scazzottate della adolescenza e giovinezza. (p. 75)
  • Sembra che Putin reagisse alla minima provocazione cacciandosi ogni volta in una rissa, mettendo perciò a rischio la sua carriera nel KGB, che sarebbe stata stroncata se fosse stato arrestato per una lite o anche solo segnalato dalla polizia. Non entriamo in merito alla fondatezza o infondatezza di queste storie, quello che importa qui è l'immagine che Putin vuole dare di sé – e vuole che gli altri diano di lui – quella di un uomo impetuoso, decisamente violento e dal carattere poco controllabile. È ancora più interessante notare come questa immagine sia in contraddizione con il rigore e la disciplina alle quali Putin ha dedicato la sua adolescenza. (pp. 79-80)
  • Il KGB si limitava a raccogliere informazioni fondamentali e a eseguire decisioni prese altrove. Questa struttura non aveva la possibilità di produrre un pensiero critico di strategia politica al suo interno. Ma era insuperato nella sua capacità di produrre informazioni di qualunque genere e nella quantità che gli veniva richiesta.
    In altre parole il KGB aveva trasformato il concetto dell'esecuzione degli ordini in una logica estrema, assurda: i suoi agenti vedevano quello che gli veniva ordinato di vedere, sentivano quello che gli veniva ordinato di sentire, e riferivano esattamente quello che gli veniva ordinato di riferire. (p. 92)
  • L'ideologia interna del KGB, come quella di ogni altra istituzione di polizia, si fondava su un chiaro concetto del nemico. L'istituzione era dominata dalla mentalità da assedio, la stessa che aveva motivato le massicce persecuzioni e le purghe staliniane. (p. 92)
  • Putin sostiene di non avere mai preso parte ad azioni contro i dissidenti, ma nelle interviste ha dimostrato di essere perfettamente al corrente di come erano organizzate, probabilmente perché aveva mentito nel dire di non averle svolte. In una memoria totalmente agiografica su Putin, scritta da un ex collega che era passato all'Occidente alla fine degli anni Ottanta, si dice chiaramente che a Leningrado Putin lavorava alla Quinta Direzione, creata appositamente per combattere i dissidenti. (p. 93)
  • A differenza dell'atteggiamento contemplativo e generalmente dimesso degli informali, Sobčak ostentava una sofisticata eleganza nel vestire – i comunisti amavano criticarlo per i completi «borghesi», e le classiche giacche a scacchi vengono rievocate negli aneddoti politici ancora oggi dopo venti anni – ed era un oratore convincente. Sembrava che gli piacesse il suono della propria voce. Come ricorda un collega, Sobčak «poteva distrarre una riunione di lavoro improvvisando per quaranta minuti un discorso su un ponte immaginario» e affascinare gli ascoltatori senza dire in pratica nulla. (p. 133)
  • Anatolij Sobčak sapeva certamente che Putin era un funzionario del KGB. Ed è proprio per questo che lo ha cercato. Sobčak era questo genere di politico: parlava con un linguaggio colorito di termini democratici, ma gli piaceva avere una solida base conservatrice con la quale gestirlo. (p. 140)
  • [Sul putsch di agosto] Anche mentre il colpo si stava svolgendo, dalle due parti delle barricate, diversi personaggi raccontavano storie differenti. Quando finì, i vincitori di fatto – quelli che avevano combattuto per la democrazia in Russia – non riuscirono a mettere insieme una storia, una versione dei fatti, che potesse diventare una verità collettiva per la nuova Russia. Ognuno venne lasciato con la sua storia individuale. Alla fine, per qualcuno quei tre giorni dell'agosto 1991 rappresentarono una storia di eroismo e una vittoria della democrazia. Per altri diventarono la storia di un complotto cinico. Quale sia la verità dipende dalla storia alla quale aderisono le persone al potere nel paese. (p. 164)
  • Sobčak stava regalando appartamenti nel centro di San Pietroburgo. Andavano agli amici, ai parenti, agli stimati colleghi. In un paese dove il diritto alla proprietà non era mai esistito e dove l'élite comunista al potere per molto tempo aveva goduto di uno status da famiglia reale, Sobčak, che si beava della sua popolarità iniziale, non vedeva nulla di sbagliato in quello che stava facendo. [...] Perché mai avrebbe dovuto distinguere tra la sua abitudine di regalare le proprietà della città e le abitudini di Putin di intascare il ricavato delle vendite di risorse pubbliche? Perché mai avrebbe dovuto prestare ascolto ai democratici del consiglio della città? Non li poteva sopportare – e quello che lo irritava più di tutto era il militante idealismo, l'assurda insistenza nel voler fare le cose come dovevano essere fatte invece di come erano sempre state fatte. Questa adesione a un immaginario codice etico invariabilmente finiva per impedire di realizzare qualunque cosa. (pp. 176-177)
  • Non sono sicura dei motivi per i quali Sobčak, che aveva inizialmente abbracciato con entusiasmo la nuova politica democratica, abbia in seguito coltivato un odio per la democrazia e le sue modalità; penso che, come megalomane, era profondamente urtato ogni volta che non riusciva a imporre la sua volontà – era urtato dalla competizione politica in sé, dalla minima possibilità di dissenso. Inoltre aveva sempre vicino Putin che ogni volta cercava di mettere in evidenza gli svantaggi del sistema democratico. (p. 184)
  • Avrei preferito stare dalla parte dei ceceni, non solo perché ero più vicina alla loro causa, quanto perché trovavo esasperante l'atmosfera di paura continua che si respirava dalla parte russa. Con i soldati che cadevano quotidianamente in imboscate, i giovani coscritti e i loro ufficiali non potevano rilassarsi nemmeno quando cercavano di ubriacarsi per dimenticare, cosa che facevano tutte le sere, per dimenticare il baccano della fucileria incessante. Scariche di fuoci ci circondavano anche il giorno delle elezioni. Quando cercai di avventurarmi in una zona di Groznyj che una volta era intensamente popolata, i miei due tutori militari mi pregarono di fermarmi. «Non ci abita più nessuno oramai», disse uno di loro. «Perché vuoi andarci? Ci faranno fuori tutti». Questi militari, ai quali venne ordinato di votare Putin dai loro comandanti, teoricamente controllavano tutta Groznyj. In verità, in quel territorio i russi avrebbero perso uomini ogni giorno per anni a venire. (p. 206)
  • [Sull'incidente del K-141 Kursk] Di tutte le tragiche storie che ho dovuto raccontare e che il popolo russo ha dovuto sopportare, il disastro del Kursk è stata forse la più terribile. [...] La storia del Kursk è stata in seguito interpretata come la facile metafora della condizione post-sovietica. La sua costruzione cominciò nel 1991 contemporaneamente all'inizio del collasso dell'Unione Sovietica; venne armato nel 1994, il momento più tragico della storia militare russa, ma anche il periodo in cui le ambizioni di superpotenza del paese, messe da parte mentre l'impero veniva smantellato, cominciavano a riaffermarsi. Il sottomarino nucleare era enorme, proprio come erano state una volta quelle ambizioni – e come sarebbero state di nuovo, con Putin al potere che prometteva di ficcare il nemico nel cesso. Il Kursk, che dopo il varo non fu quasi mai sottoposto a manutenzione, venne inviato in missione per la prima volta nell'estate del 1999, quando Putin andò al potere, e avrebbe dovuto affrontare la prima esercitazione significativa nell'agosto del 2000. (pp. 226-227)
  • Il sottomarino prese il mare con un equipaggio senza esperienza e che non era stato addestrato, messo insieme convocando uomini da navi diverse, che non avevano esperienza di squadra. Il sottomarino era armato con torpedini da esercitazione, alcune delle quali avevano passato la data di scadenza funzionale, e le altre non erano state sottoposte alle verifiche di prassi. Alcune torpedini avevano macchie di ruggine, altre avevano anelli connettori in gomma che erano stati usati più di una volta, in violazione delle norme di sicurezza. «La morte è a bordo con noi», aveva detto un membro dell'equipaggio alla madre sei giorni prima dell'incidente, riferendosi alle torpedini. (p. 227)
  • Per dieci giorni il paese rimase incollato ai televisori in attesa dal Kursk. O dal nuovo presidente, quello che aveva promesso che avrebbe ricostruito la potenza militare russa. All'inizio non disse nulla. Poi, sempre in vacanza, fece un commento vago lasciando intendere che riteneva più importante recuperare la strumentazione a bordo del Kursk che salvare l'equipaggio. Il settimo giorno finalmente si decise a prendere un aereo per Mosca – e venne immediatamente bloccato da una troupe televisiva a Jalta, sul mar Nero. «Ho fatto la cosa giusta», disse Putin, «perché l'arrivo di persone non qualificate e la presenza di autorità nella zona del disastro non sarebbe stata di alcun aiuto e avrebbe interferito con il lavoro. Ognuno deve stare al suo posto». (p. 229)
  • [Sulla strage di Beslan] Il pomeriggio del 1º settembre, appena sono entrata in ufficio ho detto ai miei colleghi, tutti più giovani e senza alcuna esperienza giornalistica in questo campo: «Assaliranno l'edificio. Fanno sempre così». Ma quando è successo, mi sono seduta alla mia scrivania e nascondendo la faccia nelle mani sono scoppiata a piangere. Quando ho tolto le mani dal mio volto, ho trovato una lattina di Coca-Cola che uno dei miei giovani colleghi mi aveva portato tentando di consolarmi. (p. 256)
  • [Sulla strage di Beslan] Durante la crisi i funzionari avevano sostenuto che ci fossero 354 ostaggi nella scuola. Invece ce ne erano più di mille. Ex ostaggi avevano testimoniato che i rapitori, che stavano guardando la TV nella sala dei professori, quando sentirono pronunciare la cifra di 354, avevano capito che il governo, sottostimando il numero delle possibili vittime, stava ponendo le basi per l'attacco. Da quel momento i rapitori smisero di distribuire l'acqua. La versione ufficiale, secondo la quale c'era una totale mancanza di richieste da parte dei rapitori, era contestata da testimoni che sostenevano l'esistenza di una lettera e di un videotape con richieste che avrebbero potuto portare a trattative. (p. 259)
  • Litvinenko era stato nei servizi fin dall'età di diciotto anni. Era uno dei più giovani tenenti colonnello che ci siano mai stati nella polizia segreta russa; era totalmente votato al sistema in cui era cresciuto, ma apparteneva a quella rara specie di persone incapaci di accettare le imperfezioni di un sistema – qualunque sistema – e assolutamente sorde nei confronti dei discorsi di chi accetta le cose come stanno. (p. 268)
  • Il sequestro nel teatro di Mosca è stato al contempo una delle operazioni di maggiore successo e uno dei recuperi degli ostaggi più fallimentari della storia. (p. 275)
  • Alle 5.30 di sabato mattina, il terzo giorno del sequestro, due degli ostaggi chiamarono Echo Moskvy, la più importante stazione radio della città. «Non so cosa stia succedendo», disse una donna singhiozzando al telefono. «C'è del gas. Sono tutti seduti nella sala. Ve lo chiediamo per favore, non vogliamo essere il nuovo Kursk». Non riuscendo più a parlare passò il telefono al suo amico, che disse: Sembra che stiano cominciando a usare la forza. «Per favore, se c'è una possibilità non abbandonateci. Vi preghiamo». È disperatamente evidente che né gli ostaggi, né i loro familiari fuori dal teatro avevano la minima fiducia nell'esercito russo. Il riferimento al Kursk era chiarissimo: non credevano che il governo avesse alcun rispetto per la vita umana. (p. 276)
  • [Su Anna Stepanovna Politkovskaja] Con i capelli grigi e gli occhiali, madre di due ragazzi già grandi, non aveva proprio l'aspetto della giornalista d'assalto e dell'inviato di guerra, una cosa che probabilmente la salvò in molte occasioni. (p. 281)
  • [Sulla strage di Beslan] C'erano tutti i segnali da parte dei terroristi di voler trattare; nella maggior parte dei paesi questo avrebbe implicato una situazione di stallo che si sarebbe trascinata per giorni e giorni fino a quando fosse rimasta la speranza di salvare anche un solo ostaggio. Ma, proprio come all'assedio del teatro, Mosca non volle aspettare la fine delle trattative; sembra infatti che l'inizio delle operazioni militari sia stato organizzato proprio per impedire un'altra riunione tra Maschadov e i terroristi, un incontro che avrebbe potuto portare a una soluzione pacifica. (p. 287)
  • Che le esplosioni negli edifici residenziali fossero state opera della polizia segreta sembra ormai certo – anche senza la possibilità di esaminare tutta la documentazione disponibile e non. L'assedio del teatro e della scuola di Beslan, invece, sembrano operazioni male organizzate, il risultato di una serie di mosse sbagliate, alleanze equivoche e piani andati storti. È quasi dimostrato che un certo numero di funzionari dell'FSB avesse da molto tempo contatti e rapporti con terroristi e potenziali terroristi ceceni. Almeno alcuni di questi rapporti prevedevano lo svolgimento di operazioni in cambio di denaro. È chiaro che qualcuno – la polizia probabilmente, o anche la polizia segreta – aveva aiutato i terroristi a spostarsi in Russia. Alla fine, tutti gli indizi puntano il dito verso il governo di Putin, il quale non si attivò né per prevenire gli attacchi terroristici né per risolvere le emergenze in modo pacifico; a questo si aggiunga che il presidente aveva basato la sua reputazione non solo sulla determinazione a «farli fuori» a tutti i costi, ma anche sulla ferocia con la quale i terroristi venivano percepiti dall'opinione pubblica. (pp. 289-290)
  • All'inizio, credo, gli organizzatori dell'assedio del teatro e della scuola e i loro bracci operativi avevano motivazioni diverse: i ribelli ceceni volevano far capire ai russi attraverso la paura l'incubo della loro guerra; alcuni di quelli che dalla parte russa li avevano aiutati a eseguire i loro piani, molto probabilmente, erano motivati solo dal denaro; altri, sui due fronti, stavano sistemando conti personali; altri ancora erano impegnati in grandi disegni politici che potevano o meno coinvolgere il vertice. Una cosa è certa: i sequestri sono avvenuti, le forze del governo che operavano sotto la supervisione diretta di Putin hanno fatto di tutto perché le crisi finissero nel modo più orrendo possibile – per giustificare la continuazione della guerra in Cecenia, l'ulteriore repressione dei media e dell'opposizione nel paese e infine per prevenire le possibili critiche da parte dell'Occidente che, dopo l'attentato alle torri, era costretto a riconoscere in Putin un alleato nella lotta contro il territorio islamico. C'è un motivo per il quale i militari russi si sono comportati a Mosca e a Beslan in modi che hanno aumentato lo spargimento di sangue: il loro vero scopo era di provocare paura e orrore. Questa è la classica modalità operativa dei terroristi, e in tal senso si può affermare con certezza che Putin e i terroristi hanno agito di concerto. (pp. 290-291)
  • Politkovskaja poteva essere molto dura: il suo carattere appassionato ed estroverso aveva anche un altro lato, reagiva con cattiveria alla minima provocazione. Questa era una caratteristica pericolosa per una giornalista le cui fonti comprendevano spesso uomini bene armati, abituati alla violenza e per nulla disposti ad avere donne che li contraddicevano. (pp. 292-293)
  • L'assassinio di Aleksandr Litvinenko è indiscutibilmente opera del governo, autorizzata dal più alto vertice: il polonio-210 che lo ha ucciso viene prodotto solo in Russia. La sua produzione e la sua esportazione sono rigorosamente controllate dall'autorità nucleare federale e la sottrazione della dose necessaria dal processo industriale di produzione richiede un intervento del vertice in una fase iniziale del processo stesso. L'autorizzazione per questo intervento doveva essere arrivata dall'ufficio del presidente. In altre parole, Vladimir Putin ordinò di uccidere Aleksandr Litvinenko. (pp. 299-300)
  • [Su Andrej Illarionov] Negli Stati Uniti sarebbe stato qualificato come ultraconservatore (in seguito ricoprì l'incarico al Cato Institute, un centro di studi economici liberista a Washington DC), ma in Russia il suo pensiero economico lo collocava decisamente sul versante liberista dello spettro. Illarionov non credeva nel riscaldamento globale e credeva invece nell'illimitata potenzialità di autoregolazione dei mercati. Era anche conosciuto per la sua brillante mente analitica e per il carattere suscettibile, fatto che lo tenne ai margini dei più importanti avvenimenti degli anni Novanta. La sua nomina fu una sorpresa per tutti, lui compreso. (p. 307)
  • Parlando con me, undici anni dopo la sua nomina, Illarionov era ancora convinto che Putin fosse «una persona straordinaria», e citava come prova fondamentale di questo la sua capacità di tenere sotto controllo le emozioni. Su questo aspetto c'era in realtà una massa di prove contrarie, comprese le molte volte che Putin aveva perso il controllo in pubblico. Ma essendo incapace di tenere per se stesso le sue opinioni, Illarionov era ancora colpito dalla capacità di Putin di «semplicemente chiudere» la conversazione sulla Cecenia – e anche, sembra, dal totale apprezzamento di Putin nei suoi confronti. In fondo Illarionov non riusciva a immaginare di poter essere sistematicamente ingannato – che è esattamente la ragione per la quale si lasciò sistematicamente ingannare per molto tempo. (pp. 309-310)
  • C'era voluto quasi tutto il secondo mandato di Putin per trasformare il cliché consolidato della narrazione corrente: la «democrazia emergente» a poco a poco aveva ceduto il posto a «tendenze autoritarie», espressione che gradualmente diede un quadro più preciso di quella che era diventata sotto tutti gli aspetti una dittatura militare. Nel 2003, quando Chodorkovskij aveva cercato di parlare a Putin della corruzione, l'organizzazione internazionale Transparency International aveva classificato la Russia come il paese più corrotto del 64 per cento dei paesi nel mondo: nella classifica era un po' più corrotta del Mozambico e un po' meno corrotta dell'Algeria. Nel rapporto del 2010 la stessa organizzazione qualificava la Russia come più corrotta del'86 per cento dei paesi del mondo e la poneva in classifica tra la Papua Nuova Guinea e il Tagikistan. (p. 330)
  • Con la rapina alla luce del giorno del patrimonio della più grossa società del paese, Putin si era conquistato il ruolo di padrino di un clan mafioso che controllava il paese. Come tutti i capimafia non faceva grandi distinzioni fra la sua proprietà personale, la proprietà del clan e la proprietà degli aderenti al clan. Come tutti i capimafia ammassava ricchezza mediante rapine alla luce del sole, come aveva fatto con la Yukos, estorcendo presunti crediti, piazzando i suoi complici dovunque ci fosse denaro da rastrellare. Alla fine del 2007 secondo un esperto politico russo – uno che si pensava avesse accesso al Cremlino – il patrimonio personale stimato di Putin era di 40 miliardi di dollari. (p. 338)
  • Il quarantaduenne Medvedev fece sembrare Putin un capo carismatico. Poco più alto di un metro e cinquanta (la statura esatta è un segreto rigorosamente protetto, ma i pettegolezzi non mancano così come le foto di Medvedev seduto su un cuscino o in piedi su uno sgabello per arrivare al microfono) al suo fianco Putin sembrava un gigante. Era un avvocato e aveva lavorato nell'amministrazione di San Pietroburgo, non aveva mai guidato un lavoro di squadra né comandato alcunché, tantomeno un paese. Imitava il modo robotico con cui Putin pronunciava i suoi discorsi parola per parola, con la differenza che ogni sillaba di Putin aveva un suono minaccioso, mentre Medvedev sembrava avere la voce di un sintetizzatore elettronico. (pp. 349-350)

Bibliografia

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  • Masha Gessen, Il futuro è storia, traduzione di Andrea Grechi, Sellerio, 2019, ISBN 88-389-3853-9
  • Masha Gessen, L'uomo senza volto. L'improbabile ascesa di Vladimir Putin, traduzione di Lorenzo Matteoli, Sellerio, 2022, ISBN 88-389-4424-5

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